Giuseppe Varlotta: “Il cinema: la sintesi delle arti di cui ogni essere umano ha bisogno”
Brainstorming Culturale ha incontrato il regista-Architetto Giuseppe Varlotta. In occasione del RIFF di Roma – Rome Independent Film Festival – alla sua XVI edizione, si racconta ai nostri microfoni. Il suo ultimo lungometraggio “Oltre la nebbia – Il mistero di Rainer Merz” sarà infatti l’unico finalista a rappresentare l’Italia.
Convinto che il cinema sia la sintesi di tutte le arti e dunque un connubio di sceneggiatura, di scrittura, di drammaturgia, di fotografia, architettura, costumi e scenografia, Varlotta si presenta come una persona poliedrica ed un attento osservatore di tutto ciò che lo circonda.
Durante il suo percorso di vita incontra Mario Monicelli, grande ispiratore per la sua arte, tanto da fargli intraprendere la carriera di regista. Come infatti usava dire “il maestro”, “mai essere convinti di essere arrivati“, ovverosia: “quando sei convinto di essere arrivato sei già morto”. Infatti, secondo il regista, bisognerebbe essere sempre stimolati dalla curiosità di ciò che non si conosce.
I suoi incontri si basano perlopiù sulla sincronicità. Ha la capacità di trasporre in immagini quello che gli viene tramandato verbalmente come anche far suoi sogni ed ispirazioni, che trasla a suo modo nelle nelle sue opere. L’artista è in grado di usare il suo personale linguaggio, lasciando quindi agli altri la libertà di interpretarlo a loro volta.
Giuseppe Varlotta, attraverso la sua chiave di lettura, riesce dunque a captare il significato di alcuni messaggi che gli arrivano dall’esterno, essendo poi capace di comunicarli, affinché giungano allo spettatore. Ascolta molto, è un estimatore del contatto umano e del silenzio, per riconoscersi ed ascoltarsi. L’arte gli ha salvato la vita, ha fatto della scuola la sua casa ed è contro la mala-educazione, che riscontra in quasi tutti gli ambienti che vive giornalmente.
Trova il mondo virtuale anti-poetico ed i suoi film sono pieni di metafore e di misticismo.
Andiamo a scoprire quanto ci ha raccontato
Da architetto a regista: quando ha compreso che quest’ultima sarebbe stata la sua attività principale?
Fin da bambino ho sempre cercato di capire cosa avrei fatto da grande. Vissuto in una famiglia umile e in una casa modesta, vedevo il mondo in modo diverso rispetto ciò che guardavo tutti i giorni. Attraverso lo studio e l’evasione ricercavo quelle che sono le peculiarità della mia indole: il disegno e la scultura. Con quest’ultimi, infatti, esprimevo me stesso, ma più crescevo più mi rendevo conto che non solo disegnare mi soddisfava.
Diplomatomi al Liceo Artistico, successivamente mi sono laureato in Architettura, per seguire un po’ quelle che erano le radici familiari. Mio padre imbianchino mi ha infatti stimolato verso questo tipo di studi, affinché un giorno potessimo lavorare insieme.
Cosa le ha fatto cambiare strada?
Andando avanti con il tempo mi rendevo conto che il mestiere dell’architetto non mi apparteneva. Ad uno degli ultimi esami, “Teoria dell’Urbanistica”, fui bocciato e di conseguenza entrai in crisi. Alcune persone che conoscevo mi suggerirono di far “vivere” i soggetti e le storie che già scrivevo, ed in questo modo cominciai a girare il primo cortometraggio: “Il bacio”. Mi sono inventato qualcosa che non sapevo fare. Con un’attrezzatura amatoriale e un montaggio fatto da un mio amico, il corto lo guardarono in parecchi: molti furono i complimenti, soprattutto rivolti alle immagini che sviluppai.
Dunque, una prima opera che mi ha stimolato ad abbracciare il mondo della regia e del cinema, la quale fu accolta con successo. “Il bacio” fu proiettato poi in una sala famosa di Asti ed un critico, nonché organizzatore di Festival, ne fu davvero colpito e mi prestò dei libri di sceneggiatura, consigliandomi anche di partecipare a dei concorsi. Da qui si sviluppò il presente: quello di cui avevo bisogno e desideravo fare, ha trovato pertanto una strada. Tuttavia lo porto avanti con tenacia e tanti sacrifici, approfondendo e studiando la materia di cui mi occupo.
Ad ora lei ha due lungometraggi alle spalle, uno dei quali ha ricevuto molti riconoscimenti ed ultimamente è uscito in DVD. “Zoè” potremmo definirlo una storia emozionante fuori dalla realtà. Quanto lavoro dietro una progettualità che ancora è in evoluzione?
L’insieme volle che le sincronicità mi portarono a conoscere gente anziana di diverse età, dai 78 agli 85 anni, le quali mi raccontarono le loro storie, avvalendosi di una visione lucida di quella che era stata la loro vita ed alcuni avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale. Ho cominciato così a percorre i luoghi appartenuti alla storia e legati agli eventi storici accaduti, dove i casali non erano neanche ristrutturati.
Per costruire una scenografia che potesse essere fedele all’ambientazione che desideravo contestualizzare, in cui la ricerca dei particolari e la ricerca della verità sono essenziali, all’interno del lungometraggio, infatti, ho rivolto la massima attenzione al territorio astigiano, facendolo conoscere attraverso la sua natura incontaminata ed una meticolosità delle immagini in macro.
Come nasce la scelta degli attori nelle sue sceneggiature?
Nel caso di “Zoè”, crederci o meno, per esempio, il personaggio principale che interpreta il partigiano Luigi, è Francesco Baccini. Egli mi apparse in sogno. Il noto cantautore genovese, una volta letto il copione accettò immediatamente di mettersi in gioco ed accettare la sfida.
Anche in questa occasione si sono verificate circostanze che mi hanno portato ad incontri particolari ed intrecci di vita, che di conseguenza hanno fatto confluire me, Baccini ed altri interpreti in un’unica direzione: il lungometraggio.
In che modo, secondo il suo modo di lavorare, riesce a trasformare una “una persona normale” in attore? Qual è dunque il percorso che adotta affinché spingere a recitare, seguendo il suo pensiero ed il carattere del personaggio?
Affinché portare qualcuno a recitare, instauro un dialogo di conoscenza profondo con la persona che ho di fronte, per poi affrontare un processo psicologico, stimolandola così a far uscire qualcosa di immediato e caratterizzante. Riesco dunque nel mio intento: mettere la persona in questione a suo agio davanti la telecamera.
Con ogni attore lavoro in maniera diversa: ognuno ha infatti una sua fisicità, un suo carattere, una sua mente e psicologia. Riesco a toccare le corde interiori delle persone con le quali entro in contatto. Attingo infatti dai loro racconti spingendole ad entrare, mediante il loro vissuto, in modo diretto nella storia che voglio raccontare. Una sorta di trasposizione del dolore di uno, della gioia di un’altra o di altri tipi di emozioni.
L’insieme diventa di conseguenza intimo, quasi intangibile, come fosse tutto un sogno.
Una definizione-concetto che delinei per lei la parola “cinema”
Per me il cinema deve far stare bene, mi deve emozionare. Credo infatti che un film non dovrebbe essere solo puro intrattenimento, ma donare un’evoluzione al messaggio insito per farmi crescere: bisogna quindi uscire dal cinema con la consapevolezza di aver conosciuto qualcosa di cui non si sapeva nulla prima.
Il bello del cinema è che ogni regista è libero di sviluppare la “sua” storia anche basandosi sulla stessa sceneggiatura.
Ci racconta il percorso della sua ultima opera: come è partito e dove è arrivato
“Oltre la nebbia – Il mistero di Rainer Merz” ha subìto un’evoluzione articolata e dunque ha vissuto un cambiamento radicale dall’inizio della sua prima stesura. La vicenda si svolge in un’ex Fabbrica di Cioccolata in Svizzera, in una zona che durante gli anni si è andata spopolando.
L’idea di rilanciare il posto mediante il film mi ha stimolato molto: andando a visitare il luogo in questione, il l’ex Fabbrica fu la prima cosa che mi colpì, ricordandomi “Shining”. Mi ha immediatamente indotto a costruire un thriller intorno ad un mistero di una bambina scomparsa da anni.
Durante il percorso però è stato arduo mettere i pezzi del puzzle al loro posto. Dal 2010 al 2013 circa, infatti, mi sono reso conto che qualcosa non funzionava nella stesura della prima sceneggiatura, la quale alla fine è stata stravolta del tutto, nei due anni successivi, perdendo ovviamente soldi e tempo. Questi sono anche gli inconvenienti del mestiere.
In un anno ho riscritto il copione per intero, ridefinendolo poi con il mio collaboratore Paolo Gonella. Siamo inoltre riusciti a concludere il lavoro con il mio socio fondatore, Giovanni Casella, della casa di produzione “Kabiria Films”, il quale ha creduto in me ed insieme siamo infatti riusciti a terminare quest’opera con tante difficoltà.
Cosa potrà aspettarsi il pubblico: un elemento che ci colpirà?
Il pubblico sarà sicuramente spiazzato riguardo il concetto della gestazione del film, il quale parte da una visione maschile, del potere dell’uomo, per poi risolversi in un finale inaspettato.
Totalmente differente rispetto ai precedenti “Nanà” e “Zoè”, “Oltre la nebbia – Il mistero di Rainer Merz ” penso stia affinando e maturando quelli che uso definire i “registri varlottiani”. Pur mantenendo alcuni segni riconoscibili – per chi già conosce i miei predecenti lavori – quali il sogno, le visioni, la simbologia e il misticismo – “Il sembrare, ma non è” – mi sono sperimentato in un genere diverso, entrando dunque nelle viscere del mistero.
Ha riscritto una sceneggiatura partendo da una già scritta in precedenza: perché?
L’antecedente non la sentivo mia, e doveva essere altro, un’altra storia. Il proprietario della fabbrica mi chiese, infatti, che tipo di film stessi girando. Mi raccontò un aneddoto riguardo una bambina, che anni prima morì in circostanze non chiare proprio in quel luogo. Caso vuole che, senza saperlo, ho scritto una storia su una vicenda simile. Ed un investigatore indaga su questo arcano.
La scrittura oggi. È importante prestarle attenzione e perché?
E’ essenziale. Al giorno d’oggi tutti scrivono, ma a cosa serve veramente? Al contrario, la domanda da porsi è: “Per quale motivo scrivo un libro?”. Tuttora mi domando cosa voglio fare da grande, cercando di stare attento a ciò che mi accade e farne buon uso per un accrescimento personale e spirituale. Quindi, “Perché dobbiamo scrivere?”. E’ tutto legato all’ego o al se? Due concetti che considero distanti e che, emblematicamente, si combattono a vicenda. Per quanto mi riguarda cerco di avvicinarmi al “se”.
La lettura: cosa le trasmette?
Dipende chiaramente da quale tipo di lettura. Essendo molto versatile mi interesso a qualsiasi argomento. Il bello della vita è come ragioniamo: la mente la intendo come qualcosa di magico, una scoperta di un “oltre”, ossia di quella parte che ancora non conosciamo, accostandosi ad una sorta di “illuminazione”. Essa si avvicina al senso di purificazione che di fatto trasmettono i bambini. Noi, invece, dimentichiamo spesso che lo siamo stati
La poesia oggi: quanto smuove le coscienze?
Penso che oggi pochi scrivono e leggono poesie. Su Facebook, per esempio, c’è ancora qualcuno che scrive liriche: mi piace leggerle, poiché noto che ci sono ancora persone che hanno della poesia da raccontare, e ciò lo trovo meraviglioso. Sento che sia un peccato che l’ “arte in versi” circoli molto poco e porta a pensare che tutto quello che è un po’ passato debba essere annullato.
Al contrario, quest’ultimo bisognerebbe riconoscerlo nella maniera giusta: prenderne il positivo per ri-usarlo oggi, attualmente, in modo consono ed intelligente, sia nella cultura, sia nella politica. Come dico sempre: “la tecnologia è bellissima, ma cerchiamo di servircene consapevolmente”.
‘Essere poco social’ mi permette di avere un contatto umano, mentre ‘essere social’ lo trovo anti-poetico. Preferisco la poesia dell’uomo: la fisiognomica mi parla molto di più, come i segni zodiacali.
Cosa si aspetta da “Oltre la nebbia”: la sua creatura ha un valore, ed è giunto ad una finale di un Festival romano. Secondo lei quale messaggio trasmette?
L’artista, una volta terminata l’opera, non la considera più sua, bensì di tutti. Spero quindi che il film possa veramente accrescere la gente attraverso il messaggio che ho provato a divulgare: mistico e spirituale.
Con “Oltre la nebbia” vorrei cercare di affascinare e far evolvere in meglio la mente dell’uomo. La frase iniziale del film, appunto, è: “All’inizio del Tempo non c’era Dio, ma solo la Dea Madre, un tempo in cui la Pasqua celebrava Lei, la Dea della Fertilità”. Svolgendosi dunque durante le festività pasquali, il lungometraggio porta con se un forte messaggio religioso, volendo cercare un “oltre”, dando quindi un senso a quella che considero la “mia verità”, da sempre insito in me.
Annalisa Civitelli
Quest’ opera di
https://brainstormingculturale.wordpress.com/è concesso in licenza sotto la
Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 3.0 Unported
Based on a work at brainstormingculturale.wordpress.com