I mondi senza confini
Gioco emozionale fatto di immagini in movimento che rispecchiano la situazione attuale dei centri di accoglienza. Razze, tutte, unite e accolte da un’unica lingua: quella dei gesti. Un racconto di terra e di acqua, due elementi della natura con i quali i profughi si rapportano ogni giorno
In occasione della giornata mondiale per il rifugiato al Teatro Argentina di Roma un’iniziativa che avvicina altri popoli al nostro per aiutarci a comprendere quanto la dignità di ciascuno sia importante. Dopo il successo riscosso lo scorso anno con Sabbia – frutto di un laboratorio teatrale con alcuni rifugiati del C.A.R.A. di Castelnuovo di Porto – il 28, 29 e 30 giugno – Respiro chiude la seconda parte dell’ideale trilogia del Teatro del Deserto.
Progetto Arte Studio–Teatro in Fuga, in collaborazione con MIBACT bando Migrarti e altre strutture, è un’idea di Riccardo Vannuccini. In prima nazionale, lo spettacolo ha visto in scena i rifugiati provenienti dall’Africa del Centro di Accoglienza Richiedenti Asilo di Castelnuovo di Porto.
Vannuccini, regista teatrale e cinematografico, è anche autore, attore, videomaker e studioso delle problematiche dello spettacolo. Ha debuttato in teatro nel ’78; ha collaborato con Ronconi, Stein, Gelmetti e Mombor. Presenta molti spettacoli teatrali come anche il suo lungometraggio Scimmia – autobiografia di R.C. Il suo percorso artistico, lo porta a ideare e curare mostre, installazioni e progetti site-specific a Palazzo Venezia, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Macro di Roma.
Con Respiro, i cui testi di riferimento sono di Shakespeare, Bachmann, Eliot, Eschilo, Omero, Danilo Kis e Naipaul, guida gli astanti dentro la realtà dei centri di accoglienza. Le persone, costrette a fuggire dalla loro terra natia, si incontrano e rinascono lì, e le lingue si confondono in una: quella delle gestualità.
Lavora di immaginazione, il regista, mettendo in scena la realtà di migliaia di persone che sfidano la morte per approdare in Paesi dove ancora si trovano a lottare per la sopravvivenza con dignità, umiltà e grande coraggio.
Nell’ampio spazio del Teatro Argentina, il quale vediamo spoglio da quinte e macchinari, si svolgono le azioni che inducono a emozionarci e scrollarci di dosso gli stereotipi, valorizzandoli invece attraverso piani sequenza differenti: conoscenza, comprensione, umanità. I ragazzi del C.A.R.A. raccontano ciò che era la vita nel loro paese e quello che vivono ora: dallo smistamento degli abiti donati, ai cibi, allo scorrere del tempo nella loro lingua madre, l’africano.
Terra. Acqua. Gli elementi naturali – cuore e base dell’esistenza – diventano le vite dei disperati che fuggono dalle barbarie dei loro paesi e le loro case durante viaggi infiniti. Sguardi. Volti verso un oltre per non soccombere in società che li respingono; occhi che quasi sembrano non guardare pur vedendo che qualcosa per loro c’è, ci sarà. Sguardi. Profondi: esprimono il dolore del distacco dalla loro terra, pieni di speranza.
Sul palco dei ventilatori: il vento spinge loro come lo stesso respiro. Il gruppo si muove coeso da un lato all’altro sul palco. Molti i movimenti quindi che rimandano a immagini che facciamo nostre, poiché i sensi sono stimolati.
Si gioca con l’acqua, schizzandola, e si danza; i ragazzi, in due file, si passano i cappotti appesi alle stampelle su un piano orizzontale disegnando il su e il giù del mare: le onde; i tavolini sorretti con le braccia alzate fanno pensare agli autobus in terre lontane, nel deserto.
La performance si svolge quasi sempre in silenzio. Un silenzio da ascoltare – cosa più difficile – il quale dialoga con la poesia e ogni corpo coinvolto. Un viaggio sensoriale nel quale immergersi che sembra quasi un destino.
Storie. Quadri. Scene di una rappresentazione – specchio di un grande problema attuale – che altro non è che vita vera, con il quale dobbiamo cominciare a fare i conti tutti i giorni per impegnarci a livello umano. Basterebbe osservare lo stato di invisibilità di queste persone, le quali spesso pagano, loro malgrado, il prezzo della nostra indifferenza. Aprire gli occhi e menti all’integrazione: una necessità che nascerà quando saremo in grado di riconoscerle e accettarle nella nostra vita.
Il sottofondo musicale accompagna quello che vediamo. Il volume della musica troppo alto smorza i toni di ogni voce che si esprime. Ma l’equilibrio dell’insieme non pesa, anzi, ci sveglia parlandoci dentro. Queste persone insegnano: hanno più dignità di noi e sono esseri puri nell’anima.
Annalisa Civitelli
Foto: Valeria Scorza
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